E niente, non c’è speranza, 007 è andato, perso per sempre; al suo posto c’è un Daniel Craig lievemente meno tonico, la camicia sgualcita, la sigaretta sempre in bocca, il bicchiere sempre in mano, che vive in un bilocale dalla pulizia approssimativa ed è disperatamente gay.
Il film “Queer” di Luca Guadagnino, in Concorso all’81. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, segna per l’attore britannico il cambio definitivo di passo, probabilmente liberatorio dopo anni di smoking, Martini e Bond girl che gli s’infilavano nel letto.
Nel film, tratto dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs scritto nel 1952 ma pubblicato solo nel 1985 perché giudicato troppo scandaloso, Craig è William Lee, espatriato che vive in un quartiere periferico di Città del Messico negli anni Cinquanta, fedelmente ricostruito a Cinecittà così come i vestiti di scena sono quelli originali dell’epoca.
Il materasso – non più king size – è quello sul quale trascina dopo qualche blanda resistenza il giovane studente Eugene Allerton (interpretato da Drew Starkey) in prestazioni sessuali che hanno richiesto la presenza sul set di un coreografo d’intimità e molti mesi di prove.
Le prove hanno incluso anche il ballo, affinché i corpi nudi dei due attori iniziassero a conoscersi, a sfiorarsi, per poi fare tutto il resto, e le riprese fossero il più realistiche possibile (lo sono).
Daniel Craig, sul red carpet del Lido in completo bianco, occhiali da sole, capelli lunghi, quasi irriconoscibile, è straordinario nel portare sul grande schermo la figura di un uomo solo, dipendente da alcol e droghe, che vive la propria omosessualità come una “maledizione”, “un’eredità genetica di famiglia”, e ciò nonostante aspiri a trovare la completezza in un altro essere umano.
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