Come un’onda, dal palcoscenico al pubblico e viceversa, dove dodici ballerini si muovono dialogando non sempre benevolmente con i propri avatar digitali.
La tecnologia irrompe alla Biennale Danza con lo spettacolo “Waves” (in prima europea) della compagnia taiwanese Cloud Gate diretta dal 2020 dal pluripremiato coreografo Cheng Tsung-lung che, per lo spettacolo in scena al Teatro Malibran, ha lavorato con l’artista digitale Daito Manabe.
In “Waves” tutto è generato dal corpo umano che perde i propri confini, a ondate raggiunge il pubblico, lo seduce, si ritira.
Il movimento diventa così dato digitale, la musica arriva dai sensori che registrano il respiro, il battito del cuore, lo sforzo dei danzatori, l’intelligenza artificiale è la nuova coreografia. La potenza del corpo non può mentire, ogni segnale fisiologico è documentato, l’esperienza immersiva rende conto di un futuro immaginifico di cui ci si accontenta di capire anche solo una porzione.
Il rapporto tra reale e virtuale, esacerbato dalla pandemia durante la quale fu ideato lo spettacolo, non ha vincitori né vinti. Si scappa dallo schermo e nello schermo si ritorna, in palcoscenico così come nella vita.
La Biennale Danza intitolata “We humans” e diretta da Wayne McGregor (fino al 3 agosto) dedica anche una mostra alle danzatrici avventurose che hanno attraversato l’istituzione veneziana a passi intrepidi intitolata “Iconoclasts – Donne che infrangono le regole alla Biennale Danza” nel portego di Ca’ Giustinian: un secolo di immagini dall’Archivio Storico delle Arti Contemporanee che celebrano le coreografe, le danzatrici, le autrici invitate in laguna dai primi del Novecento fino ai nostri giorni.
La passione, l’anticonformismo, il nuovo vocabolario della danza, con parole mai pronunciate prima, uniscono Isadora Duncan e Josephine Baker sulla spiaggia del Lido, e poi Tatiana Gsovsky, Jennifer Muller, Anna Sokolow; una sezione dedicata a Martha Graham, un’altra a Pina Baush, fino a Carolyn Carlson che, nel 1999, diresse la prima Biennale Danza.
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