Nulla sfugge, nemmeno le asole dei bottoni, nelle vesti, le acconciature, gli oggetti, gli animali di quel mondo a sé che è l’opera di Vittore Carpaccio. Narratore, scenografo, regista della Venezia rinascimentale, è ora protagonista della mostra allestita a Palazzo Ducale (fino al 18 giugno) che mette in fila, nella penombra, settanta opere di cui 42 dipinti e 28 disegni.
Niente scappa, nemmeno il piatto della minestra, a colui che sarebbe stato uno straordinario fotografo di tendenza, un Instagramer, veloce a catturare l’insieme per illuminare il dettaglio. Il pennello al posto dell’obiettivo, la tavola che diventa viva e racconta storie sacre e profane, per le chiese, le Scuole, i palazzi e probabilmente per l’artista stesso.
Carpaccio entra nella vita dei santi, dei bambinelli in fasce, delle nobildonne e la restituisce senza filtri, sparpagliando ironia e affetto. Ogni scena è un fotogramma, ogni fotogramma la memoria di un tempo fulgido in cui anche la Madonna più umile sembrava uscita dalla tessitura Rubelli.
Ricomposta l’opera “Due dame veneziane”, definito da John Ruskin “il più bel quadro del mondo”: gli uomini irretiti dalla caccia in laguna nella parte alta, le signore in attesa del loro ritorno in quella bassa, agghindate e annoiate a morte. Malizioso, Carpaccio.
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